
Una volta ho detto al mio Sensei che spesso, quando avevo mal di testa, facevo Kendo e poi, come per magia, mi passava. Con un sorriso lui mi ha risposto “il Kendo è la cura per tutti i mali!”. È proprio vero, mi sono detta. Ma un attimo dopo nella mia testa la frase era stata leggermente modificata: “Il Kendo è la cura e la causa di tutti i miei mali”.
E nel corso della lettura né capirete il perché.
La lunga ricerca
La mia storia “sportiva” inizia nell’ormai lontano 2000, quando facevo la quinta elementare. Ero una bambina un po’ particolare: sensibile, gentile, silenziosa, con un universo tutto suo nella testa. All’intervallo non giocavo a calcio con i bambini, e neanche a saltare la corda con le bambine; facevo gruppo con quelli che cercavano gli insetti sotto le mattonelle del cortile, e neanche mi piacevano tanto. Un giorno la mia migliore amica e vicina di casa mi disse che aveva iniziato a giocare a pallavolo, e così, dopo un confronto tra genitori e un incontro con l’allenatore, ho iniziato un’avventura che sarebbe durata ben nove anni. Con il passare del tempo è diventata una vera e propria passione: niente poteva separarmi dal mio allenamento, a volte neanche la febbre. Adoravo schiacciare, fare punto, recuperare la palla in modi impossibili. Quello che mi piaceva di più era, però, essere più forte di tutti gli altri. E quando non lo ero…beh, non mi andava giù.
Sia benedetta quell’arroganza e spavalderia che, spontaneamente con l’adolescenza, aveva preso mio possesso in quegli anni!
La mia storia con la pallavolo finì quando abbandonai la squadra perché detestavo perdere a causa delle mie compagne. In quel momento capii che forse avrei dovuto dedicarmi ad uno sport individuale. Così, sarei stata io e solamente io la causa dei miei successi o insuccessi. Successivamente ho avuto una breve relazione con il tennis. Breve ma decisamente costosa, motivo poi della rottura.
Quasi nello stesso momento, un nuovo mondo faceva capolino nella mia vita.
La mia insegnante di educazione fisica delle scuole superiori, una di quelle che prendeva sul serio il proprio lavoro, organizzava praticamente ogni mese lezioni di discipline diverse. Questa volta toccava al kung-fu. Il mio primo incontro con le arti marziali. La tigre, il drago. La mantide. Rimasi talmente affascinata da quell’uomo che si muoveva come un vero e proprio insetto che nell’esercitazione presi un bel 9. Ma quello tra noi era destinato a rimanere un amore platonico. Con il scemare dell’adolescenza, con la sua spinta vitale, e la convinzione di essere capaci di tutto, faceva capolino in me tutta quella serie di pensieri che è caratteristica di una persona naturalmente insicura. “Nessuna delle mie amiche vuole venire con me”, “non conosco nessuno”, “mi vergogno”. Vi ci ritrovate?
Così sono passati circa dieci anni, costellati in qua e in là di abbonamenti in palestra sfruttati solo per qualche mese e di interessi momentanei. E poi è arrivato il 1 gennaio 2016.
Il 1 gennaio per me è un nuovo anno in tutti i sensi: non solo è effettivamente il primo giorno dell’anno nuovo, ma è anche il mio compleanno. Un momento di buoni propositi, che puntualmente non vengono rispettati. Quella volta mi ero decisa a fare arti marziali e così, memore del kung fu scoperto alle scuole superiori e Google alla mano, mi ero lanciata in una ricerca sul territorio forlivese. Karate, Tai Chi, ecco il Kung Fu, solo per bambini però. E anche il…Kendo?
“Che cos’è il Kendo?”
Il primo passo
“Il kendō (剣道) è un’arte marziale giapponese, evolutasi dalle tecniche di combattimento con la katana anticamente utilizzate dai samurai nel kenjutsu. Kendō significa letteralmente “La via (道 dō) della spada (剣 ken)”.”
diceva Wikipedia, mostrando antiche foto di kendoka equipaggiati di bogu e shinai.
Effettivamente avevo già visto qualcosa del genere nei manga o negli anime. “Potrei provare?”. Ed ecco ancora una volta mille pensieri disturbatori: “Sono da sola”, “Faccio fatica a parlare con gli altri”, “Sarà una cosa passeggera, smetterò subito”.
Non sono stata veramente sicura di fare la prima lezione di prova fino a quando, qualche giorno dopo, passando sotto un ponte in una strada di campagna, non ho visto un brutto disegno fatto a bomboletta sul cemento, una figura stilizzata in kimono con una spada in mano. Un segno, mi piace pensare.
Quando il mercoledì mi sono presentata alla segreteria dell’AIK Shinken Sui Kan, chiedendo di poter fare la lezione di prova, il ragazzo si è stupito e mi ha squadrata per un attimo.“Pensavo fossi venuta per la Zumba”. Evidentemente non era ancora venuta nessuna ragazza per il Kendo. Mano sulla maniglia, agitazione in circolo. “Quanti saranno?”, “Saranno simpatici?”, “Mi piacerà?”. Aperta la porta, dopo un timido saluto, mi ritrovo davanti a un gruppetto di ragazzi vestiti di blu che fanno riscaldamento. Anche loro rimangono perplessi dalla nuova arrivata. Li sento persino ridacchiare.
Mi ha accolta il Maestro Ballardini, che mi ha introdotto le basi del kendo. I movimenti non erano difficili, ero io ad essere un disastro nella coordinazione. Non per niente sono una ballerina terribile. Che fatica faceva il mio cervello a mettere insieme gambe, caricamento, colpo, braccia, senza contare che dovevo dire il nome del colpo ad alta voce! Io, ad alta voce, davanti a tutti?! Non esiste.
Nonostante tutto il Maestro mi faceva i complimenti. “Sei portata. Nel giro di qualche mese questi te li mangi tutti a colazione.” Doveva aver intuito dal mio sguardo che pensavo lo dicesse solo per farmi un piacere, perché poi aveva aggiunto “Guarda che io non regalo niente a nessuno.” E perché mai io, perennemente divorata dall’insicurezza, avrei dovuto rifiutare un complimento?
La settimana dopo avevo fatto l’iscrizione e pagato il mio primo trimestrale per il corso di Kendo.
Ero ufficialmente uscita dalla mia comfort-zone.
Kendo: gioia e dolore
Se tre anni fa mi avessero parlato dei benefici che il Kendo avrebbe portato alla mia vita, non ci avrei creduto. Se mi avessero detto che un giorno avrei dato esami di arti marziali, in giro da qualche parte per l’Italia, urlando davanti a tutti, beh sarebbe stata indubbiamente una bella barzelletta e niente più.
In quante cose mi ha aiutata il Kendo, nel bene e nel male?
Ho trovato tanti amici, tra cui una delle mie più care amiche, e in particolare modo il coraggio di trovarli; sono più sicura di me e del mio corpo, tanto che, dopo una vita con i capelli lunghi perché convinta che mi stessero bene solo così, li ho pure tagliati corti , e forse stavo meglio prima ma non mi importava; mi ha spinta ad iniziare altre attività, come per esempio lo studio della lingua giapponese, che amo; e se vogliamo dirla tutta, grazie al Kendo (o meglio allo Iaido, ma questa è un’altra storia) ho affrontato il mio primo intervento chirurgico ed ho in parte superato il terrore per tutto ciò che riguarda quell’argomento. Ho anche trovato qualche opportunità di lavoro, pensate un po’. E’ stato come se quel piccolo passo fuori dalla mia zona di comfort abbia dato vita ad una serie di eventi consequenziali, come quando si lancia un sassolino in uno specchio d’acqua immobile.
Ma il Kendo, voi lo sapete, non è solo gioia. Per le persone come me, che forse si rivedono in questo articolo, il Kendo è anche tanto dolore.
“Le persone che scelgono spontaneamente di intraprendere un percorso di arti marziali, e quindi che non sono state spinte dai genitori quando erano bambini, sono solitamente persone che non hanno avuto un’educazione strutturata, e talvolta situazioni famigliari instabili. Per questo, da adulti, ricercano un ordine e una forte disciplina.”
Mi ha detto Sara, una mia amica psicologa di professione.
“In particolare tu hai un Super-io molto severo, un giudice inflessibile che da te pretende molto, troppo.”
Quanti allenamenti andati male, pianti di insoddisfazione, paragoni fatti tra me e gli altri. Quante crisi, perché volevo essere migliore di così, che si sono poi riflettute anche nella vita reale. Quanto nervoso, quando sembra essere tutto contro di me, le ginocchia deboli, l’asma da sforzo, il fisico un po’ cagionevole. Ricordo benissimo, con ancora oggi un moto di delusione, il mio recente esame da Shodan. Superato, ma tanta era l’insoddisfazione per come lo avevo fatto che speravo di essere stata bocciata. Ho pianto sotto la doccia.
Fresa Sensei mi ha chiesto una volta “Ma tu ti diverti mai quando fai Kendo?”. Divertirmi? Mi sembrava quasi di non aver mai preso in considerazione quella possibilità. Certo, quando non pensi ad altro che al risultato, come fai a divertirti? Oggi mi rendo conto che non è cambiato molto da quando ero una ragazzina che giocava a pallavolo. Sono sempre io che cerco di essere migliore di tutti gli altri, ma caricata di tutte le insicurezze che ti regala il passare degli anni. E quando è così, quel desiderio non ti da la carica, ma ti butta a terra.
Bu toku mu kyo: un epilogo
Mi hanno sempre parlato bene del famoso Bu Toku Mu Kyo, il seminario di quasi una settimana che si tiene tutti gli anni tra le montagne di Bedollo in Agosto, ma non avevo mai partecipato, fino a quest anno. Un po’ perché coincide con il periodo di vacanza e quindi spesso ero in viaggio, un po’ perché non me la sono mai sentita. Mi coglie sempre una specie di ansia immotivata quando devo partecipare a un seminario, insieme a tutta quella serie di domande che abbiamo già visto fare capolino. “Non c’è nessun amico stretto con me”, “ci sono tante persone che si conoscono già da anni”, “non sono brava a fare nuove amicizie”. In particolare poi, avevo smesso di allenarmi a giugno, e temevo di non riuscire a reggere gli allenamenti. L’ultima cosa che volevo era fare una brutta figura con me stessa e con gli altri. “Non ce la farò”.
Se non fossi andata fino in fondo non avrei mai saputo che mi sbagliavo.
Tani Sensei, Hichiwa Sensei, e Tsuchiya Sensei hanno organizzato le varie giornate molto bene. E’ stato emozionante rivederli, e conoscere Tsuchiya Sensei, che non avevo mai incontrato. Tani Sensei si è anche ricordato del nostro precedente incontro e mi ha fatto vedere una foto che ci eravamo scattati, e mi ha detto che sono migliorata. Mi sono sentita molto lusingata.
I singoli allenamenti della mattina e del pomeriggio erano strutturati in modo arioso e piacevole. Superato il muro degli 800 suburi poi, era come se fossimo diventati in grado di fare tutto. E’ strano come in un normale allenamento nel dojo, 50 suburi sembrino troppo faticosi, e poi tutti insieme se ne facciano 800 di fila, con ancora le energie in corpo per affrontare lo step successivo.
Con un po’ di fortuna (e velocità nel mettersi il Men), nel corso delle giornate sono riuscita a fare jigeiko con tutti e ad ascoltare i loro consigli. Anche con Murata Sensei e Lancini Sensei, che per me è un grandissimo punto di riferimento e mi ha dato ancora una volta delle preziose indicazioni. Tutto molto bello, vero? La verità è che mi sono sentita smontare pezzo per pezzo, meno Shodan che mai. Alla domanda “come va?” la mia risposta era “benissimo, più mi alleno e più peggioro!”. Soprattutto dopo la temibile prova di shiai sotto agli occhi di tutti.
“L’esperienza da primo dan è così”, mi ha detto Corinna, la mia amica kendoka di Porto San Giorgio, “a un certo punto ti sembra di non essere più in grado di fare nulla. Lo dicono tutti.”. E ancora, il caro Vincenzo del Kaizen Kendo Cava: “Smetti di autocommiserarti, perché non ti serve a nulla. Non ti è di aiuto.”. E i sorrisi di Bruno che cercava di tirarmi su, la dolcezza di Heidi che mi diceva che sono brava. Quando è così, chi sono io per non essere contagiata da tutto questo? Così ho preso atto delle mie difficoltà, e alla fine ci ho riso su.
Chi di voi mi conosce lo sa, sono una persona piuttosto razionale e non sono solita fare discorsi così “astratti” o “sentimentali”, ma sono fermamente convinta che, in quei giorni, ci sia stata una forte energia, condivisa e tangibile, a permetterci di dare il meglio. E non solo durante il Kendo. Per sei giorni mi sono svegliata, allenata e ho pranzato, cenato, chiacchierato, riso e dormito con persone che sono state davvero un’infusione di positività, dalle quali traspare nel fare Kendo una gioia spontanea e senza pensieri. Così liberatoria e leggera che, wow, quanto sarebbe bello rilassarsi così, anche solo per un attimo. Ridere dei tuoi errori, riguardarsi in un video senza deprimersi, sfidare un amico nel jigeiko senza avere paura di fare brutte figure.
E’ questo che l’esperienza di Bedollo mi ha dato, una ventata benefica come l’aria delle sue montagne, che deve portare il mio Kendo ad essere solo cura, e mai causa dei mali che sono le mie insicurezze.
E un po’ ci è già riuscita, perché anche se ho pianto, questa volta è stato per i motivi giusti. Per questo, la foto che mi hanno scattato con i maestri, con la faccia rossa per le lacrime è tanto preziosa: perché ero così felice di quel tempo trascorso con tutti, e perché era dovuto finire. E per nessun altro motivo.
Rachele Girelli